A copp’a mano

Stavate tranquillamente parlando con una persona… quando a copp’a mano è intervenuto quel passante

A chi non è successa una cosa del genere?

In questo caso l’elemento interessante è questo modo di dire molto utilizzato fino a diventare un intercalare del nostro lessico più o meno dialettale. Vediamo l’origine di “a copp’a mano”.

La derivazione di questo modo di dire si collega al gioco delle carte, rigorosamente napoletane. Ad approfondire questo tema vengono fuori molti modi di dire del dialetto napoletano. Evidentemente il giuoco delle carte appassiona i napoletani a tal punto da entrare nel loro modo di paralre. A conferma di questo tante sono le storie del re di Napoli Ferdinando che, travestito da lazzarone, amava trascorrere le serate nelle bische clandestine del centro storico.

Ebbene torniamo al nostro “a copp’a mano”

Quando si gioca a carte esistono delle figure fisse a prescindere dal gioco. Il mazziere, alla sua sinistra una persona che spacca il mazzo e, alla sua destra, quello che giocherà per primo. Queste figure, tradotte in dialetto napoletano diventano: “uno mmesca le carte e l’auto a mancina aiza, e chillo a la deritta è de primma mano”. Vale a dire che il mazziere, ovvero ’o cartaro, dopo aver mischiato il mazzo di carte, lo fa “tagliare” a chi sta sott’ ’a mano, cioè, a chi sta alla sua sinistra, mentre il giocatore che si trova a destra del cartaro è il primo a giocare. Essere primmo ’e mano, quindi, significa essere il primo a dover giocare. Per traslato vuol dire essere il primo ad avere la possibilità di dire o fare qualcosa.

Però, se a giocare per primo non è il giocatore subito alla destra del mazziere ma qualcun altro, questi ha giocato â copp’ ’a mana, quando non era il suo turno.

Ecco risolto il dilemma.

Se qualcuno parla fuori luogo, nel momento inadatto alla circostanza o poco opportuno, intromettendosi senza essere interpellato, ebbene, ha parlato â copp’ ’a mana.

Ci sono, come detto, altri modi di dire legati al gioco delle carte

Chi si ostina sulle proprie posizioni, rifiutando la risoluzione di un problema o di una lite. Chi è eccessivamente tenace nei propri propositi, senza accondiscendere a proposte ritenute per lui poco convincenti, allora si dice ca nun vo fà carte. Come il giocatore che, per prudenza, si rifiuta di aprire il gioco.

Un altro modo è legato alle regole del Tressette, un gioco antico e assai diffuso.

Il De Regulis ludendi et solvendi in mediatore ac Tresseptem, o codice Chitarrella (1750), consta di 44 regole. La traduzione napoletana del paragrafo II, 1 di Luigi Chiurazzi è molto singolare perché in esso si parla di un termine che non è riportato in nessun vocabolario napoletano. La regola dice: “spate, coppe, denare e mazze, so’ li quatto colure de le ccarte, (che se chiammano purzì pali) ognuno de chiste è de diece carte” ecc. ecc.

E quando nel tentativo di evitare un danno o un pericolo si incorre in un altro più grande, l’espressione più ricorrente è: scartà fruscio e piglià premmera, cioè, andare di male in peggio, cadere dalla padella nella brace.

A proposito di questa locuzione, Renato De Falco nel suo Napoletanario, afferma che “la formulazione originaria, era, correttamente , al negativo: nun scartà fruscio pe piglià premmera: il fruscio infatti, costituito da quattro carte dello stesso seme, vale settanta punti contro gli ottantaquattro della primiera, formata da quattro sette. Il giusto suggerimento era dunque quello di contentarsi di ciò che si possiede, non indulgendo alla tentazione di ulteriori incrementi”.