“Currìte, currìte, stann sunann’ a ncìmm cap” “Sì, sì, e varche stann già mmiez e bocche” “Dice ca assòmman’ pur a ret e faragliùn!” “Chist sò e cchiù fetient, l’urdima vòta s’anno purtat a tre guagliùn e ann abbruciàt u quadr r’a Maronn” “Fujìt ‘ncopp o paese, ch’a n’atu ppoc chiùron e port i Acquaviva e d’o Castièll!” “San Custà, piènzc’ tu”
Questo potrebbe essere un dialogo tra gli abitanti di Marina Grande in un giorno qualsiasi del ‘500; gli allarmi sono dovuti all’imminente ennesima scorribanda dei pirati turchi in cerca di bottino e schiavi da portare in Africa. Provate a immaginare nelle acque antistanti il porto o davanti a Marina Piccola veleggiare veloci galee col vessillo della Mezzaluna con intenzioni nient’affatto amichevoli…. pirati
Chi non ha sentito dire, magari da qualche anziano, “s’o pigliate r’e turchi” o “Mannaggi’o Pataturco”? Chiaramente si capisce come i contatti con i dirimpettai che arrivano “dall’altra parte del mare”, sono sempre stati frequenti. pirati
In particolare l’espressione “preso da Turchi” o “captus a mauris” è presente negli antichi registri dell’anagrafe per indicare le persone che risultavano rapite dai pirati corsari.
Il Mediterraneo, per la sua particolare conformazione è sempre stato soggetto di traffici e, di conseguenza, di un intensa attività piratesca. Attività che esercitavano abitualmente Etruschi, Fenici e che, come dicono i libri di storia, divenne un problema serio per i Romani, se è vero che il senato romano incaricò, senza successo, Pompeo Magno di liberare i mari dal terribile flagello, e che lo stesso Giulio Cesare, nel 74 a.C. venne fatto prigioniero dai pirati durante un viaggio verso Rodi. Anche se dopo trentotto giorni di prigionia nell’isola di Pharmacusa e il pagamento di un riscatto, una volta liberato, Cesare con quattro galere da guerra e cinquecento soldati, attaccò il rifugio dei pirati, recuperò i cinquanta talenti del riscatto e fece centinaia di prigionieri. pirati

Galee. feluche e tartane erano imbarcazioni che sfruttavano la propulsione a remi di schiavi o malfattori insieme al vento
Ma tra i secoli XV e XVIII la guerra da “Corsa” vive il suo momento culminante; flottiglie armate, regolarmente autorizzate dai rispettivi governi centrali grazie a salvacondotti o “lettere patenti”, in cerca di bottino e schiavi infestavano lo Ionio e il Tirreno, provenienti da città come Algeri, Tunisi, Tripoli e in alcuni casi anche dalle cristiane Malta, Livorno e Messina, portando via con sé ricchezze e persone. pirati
Provate a immaginare queste veloci imbarcazioni a remi, dotate di vela latina (galee, tartane e feluche) che affrontavano un viaggio di almeno 50 giorni, la cosiddetta “corsa”, solitamente sfruttando il mare calmo estivo, con a bordo un “raìs”, comandante in capo, un “khogia” o comandante in seconda, in genere l’unico a bordo in grado di leggere, e poi il timoniere, il maestro delle vele, il cambusiere e la ciurma, schiavi rematori costretti a turni di anche 20 ore al giorno (dagli schiavi rematori imbarcati sulle galee verrà il termine “galeotto”), assetati di ricchezze e uomini da vendere nei bazar dell’Africa settentrionale. pirati
Dall’altra parte le città costiere e le isole del Tirreno, Amalfi, Capri, Massa Lubrense, costrette ad inviare di continuo – ma purtroppo inutilmente – suppliche ai vicerè della Napoli Spagnola seicentesca, per avere protezione e risorse atte a rinforzare le numerose torri e mura messe a dura prova dalle ripetute scorribande “Barbaresche”. Dopo ogni “visita” non rimaneva altro che fare la conta delle perdite in beni e persone – nel 1523 su 320 famiglie circa presenti sull’isola, si contarono 8 capresi rapiti dai Corsari. pirati
Comincia ad apparire, sempre più spesso, nelle liste dell’anagrafe del tempo la dicitura “captus a mauris”. Nei decenni questa guerra di mare visse momenti di calma e picchi di notevole aggressività, come quando, tra il 1531 e il 32 il pirata Kareiddin – detto il Barbarossa – ebbe l’ardire di saccheggiare l’isola fino a distruggere il castello, ad Anacapri, che oggi porta il suo nome;
o ancora nel 1553, il successore del Barbarosa, tale Dragut, attaccando Capri da entrambi gli approdi di Marina Grande e Marina Piccola imperversò per tutta l’isola arrivando a distruggere l’ultimo riparo della popolazione, la Certosa di San Giacomo, che fu data alle fiamme e saccheggiata. Si capisce come in questo secolo la popolazione dell’isola diminuì di quasi un terzo – tra rapimenti e trasferimenti sulla più sicura terraferma.

La Certosa era l’ultimo e più ricco luogo di riparo. Infatti nel 1553 fu data alle fiamme e saccheggiata.
Intanto gli ostaggi, una volta raggiunti i porti della Berberia, venivano venduti come schiavi nelle piazze di Algeri, Tripoli o Tunisi per – se fortunati e trovati in buona salute – lavorare nelle case dei ricchi mercanti Barbareschi, oppure, nella peggiore delle ipotesi, incatenati a loro volta su uno scalmo di legno, per portare, a colpi di remi, paura e distruzione ai propri stessi compaesani.
In mancanza di ogni aiuto non rimaneva ai poveretti che affidarsi alla benevolenza del patrono San Costanzo o a San Leonardo, il patrono degli schiavi, a cui era dedicata una cappella sul monte dove ora sorge Santa Maria del Soccorso. pirati

Il castello Barbarossa, costruito sulle pendici del monte Solaro porta il nome del pirata che lo distrusse
Racconti che ci fanno pensare a grandi produzioni hollywoodiane, ma che associate alle nostre spiagge, alle nostre strade e ai ruderi delle fortificazioni costruite all’epoca, ci danno una visione diversa e avventurosa della nostra isola.