Tanti pensano al mare come elemento che limita, che “isola” da altre terre…. ma se invece vedessimo il Mediterraneo come un territorio unico, liquido? Il grande mare “in mezzo alle terre” (questo il significato etimologico del suo nome), i cui abitanti si sono stabiliti, attraverso i millenni, sulle coste, sui promontori, nelle isole che diventano i confini di questo immenso territorio?
Dai tempi più remoti, dove la storia affonda le radici nella mitologia, questo mare ci dà testimonianza di un susseguirsi di civiltà. Con mezzi limitati e tanta costanza “il popolo delle isole e delle coste” ha prosperato. Si chiamarono fenici, cretesi, greci, saraceni, genovesi, amalfitani o veneziani. Si stabilirono di volta in volta nelle isole del centro, nelle coste del Sud o sui promontori e le lagune del Nord. Si scontrarono tra loro per secoli senza che una parte avesse ragione delle altre in maniera definitiva. Ma certo non avevano capito di essere un unico grande popolo…. il popolo delle isole!
Lo si capisce dalle migliaia di aspetti in comune che hanno italiani, algerini, spagnoli, croati, greci, ecc. Usanze, termini linguistici, ricette, attrezzi, imbarcazioni si fondono in una familiarità che diventa cultura.
I protagonisti di questo scambio continuo e millenario sono i marinai. Persone sagge e coraggiose che si tramandano esperienza e tradizioni non scritte risalenti alla notte dei tempi.
Già i loro soprannomi ti portano indietro nel tempo e in giro nel mondo “Rodolfo u grièc”, “Giuvann u caìcc” e poi c’erano “Capa janca”, “O Sciacall” ecc.
Chi ha avuto la fortuna di conoscere qualcuno di questi eroi rimane estasiato dai loro racconti. Fino a 60 – 70 anni fa un’attività che ancora si basava sulla forza dell’uomo. Non esistevano allora i potenti e inquinanti motori o i gps e computer di bordo del terzo millennio. Servivano mani grandi per pagaiare, orecchie dritte per ascoltare gli insegnamenti degli esperti anziani e occhi svegli per scrutare l’orizzonte e capire il momento giusto per issare la vela latina e proseguire oppure per tornare in porto. Formule segrete che permettevano al più coraggioso del posto di portarsi con la sua imbarcazione in prossimità di una tromba d’aria per recitare la frase ancestrale che la “tagliasse”, evitando lo sconquasso di barche e moli. Un cambiamento di colore del mare o un certo tipo di nuvola era presagio di pesca abbondante oppure condanna a una giornata di riposo in casa.
Perché il marinaio delle isole a casa ci sta di malavoglia. Sì, ci sono i figli, la moglie premurosa, ma la sua vera casa è la distesa azzurra e profonda. Lui sta bene quando lo stomaco balla tra le onde, quando il viso è coperto di salsedine. L’adrenalina dell’incertezza, la possibilità di portare a terra la barca piena di pesce e il rischio di non tornarci più nel porto…. questo è il demone che spinge il marinaio delle isole a imbarcarsi, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, e ogni giorno con la stessa emozione del primo. La sete di conoscenza che dà energia, perchè lui sa che dall’altra parte ci sono porti e lingue nuove da conoscere, usanze nuove da imparare e… magari… anche qualche donna da conoscere….
Volti che sono cartine geografiche, monti, valli, fiumi… ogni ruga è una storia, un’avventura… e cosa importa se, davanti a un bicchiere di vino, un tonnetto sprovveduto diventa una balena famelica…. ascoltare di quelle avventure, di quelle terre è una magia.
E allora se vai a Biserta ti indicheranno il munazzero (1), forse un po’ più grande rispetto a quello di Marina Grande per sistemare le tue reti, se ti trovi a Limassol o a Kìssamos vedrai rientrare i caicchi (2) circondati da gabbiani, come al largo dei Faraglioni. Ti porteranno a salpare uno “sciabicchello (3)” carico di pesce al largo di Alcudia nelle baleari, a Marsiglia o davanti a Gradola
- 1: munazzèrö = Magazzino. Locale adiacente al porto per il riassetto di piccole barche e deposito per le reti. Probabile derivazione dall’arabo makhā zin, pl. di makhzan, der. di khazana «conservare, immagazzinare»
- 2: caìcco = imbarcazione leggera alberata. Dal turco kayik, che proveniva dal turco-ottomano kayik o qayïq col significato di barca
- 3: sciabichello = sistema di pesca costituito da una rete a circuizione. Diminutivo dall’arabo “sciabèk”, imbarcazione tipica dalla vela latina, utilizzata prima per la pesca e, in seguito, per la navigazione e la razzia sotto costa. Questo termine in particolare, legato a un tipo di pesca particolarmente abbondante – anche se dannosa per i fondali e oggi vietata – è diventato sinonimo di scorpacciata di prodotti – frutta principalmente – dalle proprietà altrui. Forse perchè nel periodo di fermo di pesca, queste reti venivano poste al di sotto degli alberi da frutto per far sì che i frutti maturi non cadessero sul terreno, e diventavano facile preda di qualche scugnizzo goloso. Oppure le stesse reti venivano utilizzate come strumento di caccia agli uccelli migratori che facevano tappa sulle coste capresi. A tal proposito consigliamo l’approfondimento “Ferdinando, le quaglie e lo sciavichiello”
Pare addirittura che esista una vera e propria lingua, un’idioma parlato in tutti i porti del Mediterraneo. La lingua Sabir, anche detta franca-mediterranea, un misto di italiano, francese, spagnolo ed arabo, indispensabile, in passato, per chiunque volesse lavorare sul mare e con il mare.
Ecco un esempio di preghiera a tutti nota, tradotta in questa lingua:
“Padri di noi, ki star in syelo, noi voliri ki nomi di ti star saluti. Noi volir ki il paisi di ti star kon noi, i ki ti lasar ki tuto il populo fazer volo di ti na tera, syemi syemi ki nel syelo. Dar noi sempri pani di noi di cada jorno….”
Ecco il Padre Nostro come lo pronunciava un marinaio o forse un mercante, entrambi per ingraziarsi una benevolenza divina o farsi proteggere prima di un lungo viaggio, nel Medioevo in uno dei tanti porti del Mediterraneo dove era necessario conoscere questa incredibile lingua franca, l’unica possibile per far sí che un veneziano, un genovese, un turco, un arabo, un greco, uno spagnolo, potessero comunicare tra di loro.
Era chiamata anche “Petit Mauresque” e il nome “Sabir” è forse una storpiatura del termine “Saber” cioè sapere perché alla fine questo “sapere” era un concreto fortunato strumento di comunicazione, tanto da diventare una lingua parlata per almeno tre secoli e che nel 1830 avrà persino il lustro di essere pubblicata in un dizionario della lingua del mare, Dictionnaire de la langue franque ou Petit mauresque, manuale scritto in lingua francese in occasione della spedizione francese per la conquista di Algeri.
Il grande commediografo Carlo Goldoni la userà per far parlare il suo Arlecchino e anche a noi piace pensare al Sabir come un incredibile esperimento, all’epoca nato dalla necessità di comunicare tra diverse culture, possa diventare il simbolo di un’auspicata nuova armonia mediterranea.